S.E. Mons. Paolo Giulietti sul tema del volontariato

S.E. Mons. Paolo Giulietti sul tema del volontariato

Nel mondo del volontariato ci sono stati e ci sono continui cambiamenti, che in genere rispecchiano l’evoluzione della società. Nel tempo essa si  è resa sempre più capace di fronteggiare problematiche e disagi, magari facendo proprie acquisizioni nate nell’ambito del volontariato, soprattutto nelle opere cattoliche. Questo da una parte è positivo, perché manifesta una crescita culturale da parte delle istituzioni e della comunità civile, per ciò che riguarda l’attenzione a bisogni  e necessità della persona, che non vengono più demandate alla buona volontà di qualcuno, assunte dalla comunità. Questa evoluzione spesso  è avvenuta su pressione del mondo del volontariato. Ricordo, ad esempio, il ruolo dell’obiezione di coscienza in relazione alla sospensione della leva, ma ci sono stati altri fenomeni sociali, legislativi e  istituzionali nati sulla spinta del volontariato.

D’altra parte, questo sembra ridurre il campo d’azione del volontariato. Diceva prima Maria Josè: “Se gli anziani non si possono più imboccare o lavare, che fanno i volontari a Fontenuovo? Perché sono ancora lì?”. Quando non esistevano gli ospedali pubblici, faceva tutto la Chiesa, mediante le confraternite e gli ordini religiosi; era il volontariato – in senso lato – che si occupava dell’uomo nelle situazioni di bisogno. Ora c’è invece una serie di istituzioni sociali, sanitarie, penitenziarie… che fa queste cose a nome della collettività, secondo le leggi. Questo ha ridotto sicuramente lo spazio del volontariato, anche dentro le nostre strutture, perché è cambiata la normativa, è cambiata la tipologia delle prestazioni: il volontariato ha visto ridurre il proprio spazio.

Il fenomeno è positivo, perché vuol dire che, la società è cresciuta e la funzione di “supplenza”del volontariato si riduce sempre di più. Noi non facciamo il tappabuchi dello Stato o della comunità (almeno in teoria, perché in alcuni campi purtroppo è ancora così). Dovremmo avere, dentro le strutture pubbliche, una funzione originale: essa sta venendo sempre più in luce, paradossalmente, proprio grazie al ridursi delle funzioni operative. Qual è questa funzione? L’hanno detto tutti coloro che hanno offerto la loro testimonianza, sia pure in maniera diversa: è la funzione di offrire umanità, vicinanza umana. Perché, nonostante tutte le risorse umane, tecnologiche, strutturali, mediche… che vengono messe in campo, lo Stato non garantisce l’umanità dei propri servizi. Può garantire la presenza di un infermiere che fa il bagno all’anziano, ma non che egli ne riconosca il valore e lo tratti con carità; può garantire la presenza di un agente di custodia, che apre e chiude il cancello del carcere, ma  non può garantire la sua disponibilità ad essere gentile, ad ascoltare… Quest’attenzione all’umanità delle strutture è sempre più chiaramente il campo proprio del volontario, il quale, anche quando avesse poco da fare, e anche se in futuro avesse ancora meno da fare, non avrebbe comunque perduto la sua ragion d’essere.

È molto importante ribadire questo concetto, non solo nell’APV, e non solo nei nostri ambienti, ma per tutto ciò che concerne l’azione caritativa della Chiesa. Giustamente il Papa sottolinea che la Chiesa non è una ONG – con tutto il bene che noi vogliamo alle ONG. La Chiesa è soprattutto una realtà in cui le persone vengono accolte come tali, magari per il tramite di un servizio o di una struttura. La persona viene riconosciuta come persona e viene supportata dall’umanità degli altri. Questo è il proprium del volontariato e della carità cristiana. Questo è ciò che c’è di più specifico.

Alle volte questa attenzione si esercita attraverso delle strutture di carattere istituzionali,  importanti:  pensiamo a Villa Nazarena, a Fontenuovo…; altre volte si esercita con semplici azioni, come la visita ad un malato: stare lì, sorridere, parlare, ascoltare… Cambiano le modalità, ma il cuore è sempre quello: l’accoglienza dell’altro in umanità.

Non dobbiamo avere l’illusione di essere per forza tenuti a offrire delle prestazioni, e anche qualora offrissimo delle prestazioni, ricordiamoci che ciò che conta non è la prestazione, ma l’incontro di umanità. Viviamo in una società in cui le prestazioni aumentano sempre (almeno prima della crisi…): siamo passati sicuramente da una società che tutelava poco ad una società che tutela molto. A fronte di prestazioni crescenti, però, constatiamo spesso un deficit di umanità. La gente si sente sola, non è più capace di fronteggiare come una volta l’esperienza del dolore, della morte, della malattia, della detenzione, della solitudine… La nostra società, così ricca di prestazioni, si sta impoverendo in umanità, perché abbiamo l’illusione che sia sufficiente fornire servizi. Essi sono importanti, ma l’uomo non è un consumatore di beni e servizi; l’uomo è una persona dotata di ragione, di anima e di sensibilità. Tra i bisogni fondamentali ci sono aspetti che nessuna prestazione può soddisfare. Solo il rapporto significativo con un’altra persona può saturare i bisogni di umanità, di relazione, di ascolto e di cura, intesa come attenzione amorevole.

Il volontariato deve avere la consapevolezza che è questo il suo proprium, anche quando è chiesto di rispondere a dei bisogni fornendo anche delle prestazioni, come sa benissimo chi lavora in certi ambiti. L’intervento di Maria Josè, quando ha parlato dei malati di Alzheimer, l’ha messo bene in evidenza: in quella situazione non si può fare niente, se non assicurare la vicinanza umana.

Questo è molto importante e va tenuto bene in evidenza, sia per evitare frustrazioni, sia per investire in questo ambito. Offrire umanità non è una cosa semplice; è molto più semplice fornire una prestazione che accogliere una persona. È molto più semplice distribuire un pacco viveri che dialogare. Il Papa ci esorta a “diventare amici dei poveri”. È molto più semplice fornire una prestazione che diventare amici dei poveri, perché implica la capacità di accoglierli, di eliminare i pregiudizi, di imparare a parlare sulla loro lunghezza d’onda, di avere il coraggio di una vera reciprocità, in cui non ci può essere solo una parte che da, perché ha strumenti, opportunità. Nel diventare amici c’è una vera reciprocità: se si dà e si riceve in maniera autentica le persone cambiano: cambia la persona che riceve aiuto ma cambia anche chi lo offre. Penso che l’esperienza di tutti possa confermare tale affermazione.

Maria Josè ci ha raccontato che ha scelto di sposarsi a Fontenuovo: evidentemente, il suo incontro con gli anziani è stato determinante per il modo di guardare alla vita, fino a decidere di vivere lì il momento del matrimonio. Questo è veramente difficile. Noi siamo condizionati dalla cultura delle prestazioni. Facciamo molte cose, ma diventiamo persone in relazione con l’altro. Questo non è ancora vero volontariato. Tra l’altro, ci si espone a forti delusioni, dinanzi, per esempio, al fatto ineluttabile della demenza senile o della morte. Che cosa possiamo fare? Niente. Oppure dinanzi al fallimento del reinserimento di un detenuto (spesso chi esce dal carcere ci rientra). Se si pensa che la prestazione sia l’obiettivo, ci si espone inevitabilmente a delusioni. Se invece si focalizza bene che l’obiettivo è la qualità delle relazioni, allora è chiaro che la vicinanza ad una persona nella sofferenza, nella ristrettezza del carcere, nella malattia, ha comunque un valore grande.

Non si deve dimenticare, però, che la capacità di offrire relazioni significative richiede competenza, stabilità di servizio, serietà, disponibilità. Il volontario non è uno che “ogni tanto” si interessa delle persone bisognose. Si può fare anche questo: si può stare al bar con gli anziani una sera, fare una partita a briscola e tresette e poi non farsi più rivedere. Non è una cosa sbagliata, ma non è volontariato. Il volontario fa una scelta di stabilità, che consente appunto di creare una relazione stabile con un ambiente, una struttura e le persone che ci vivono. Conoscete la storia della volpe e del piccolo principe? La volpe dice: “Mi devi addomesticare. Non puoi venire un giorno alle 3 e un giorno alle 5; devi venire sempre quel giorno e a quell’ora, perché io ti aspetto. Quando so che tu arrivi, comincio già da prima a essere felice”. L’impegno di accollarsi un turno, un orario… significa scegliere di vivere con serietà la relazione con le persone.

Circa la competenza, bisogna dirsi che stare dentro un ambiente non si improvvisa. Per stare in ospedale, a Fontenuovo o in carcere non ci si improvvisa volontari. Per fare un volontariato serio, per avere la possibilità di farsi vicino alle persone, c’è bisogno anche di competenza.

L’Associazione offre questa possibilità di dare stabilità al servizio, di acquisire competenza, di avere un rapporto con le istituzioni. Perché per agire dentro le istituzioni bisogna starci “alla pari”, mediante un’altra istituzione, che è l’Associazione.

L’Associazione offre anche la competenza per le piccole prestazioni che si possono fare e che si deve saper fare. Quando è richiesta una prestazione, in certi contesti bisogna che la si sappia fare. Inoltre tali ambienti hanno delle regole – pensiamo al carcere – e bisogna sapere come muoversi. La competenza è importante. Più l’ambiente è particolare, più la povertà è seria, maggiore deve essere la competenza, sia negli aspetti relazionali che riguardo alle prestazioni che si è chiamati a fornire.

Un’altra considerazione importante, mi sembra sia quella relativa alla dimensione teologale dell’esperienza del volontariato. Papa Francesco nelle sue ultime encicliche afferma che la Chiesa non va incontro ai poveri perché debba prima di tutto risolvere dei problemi, ma perché essi sono luogo dell’incontro con Dio, dell’incontro con Cristo: “Ogni volta che avete fatto questa cosa a uno di questi fratelli più piccoli, l’avete fatta a me”. La Chiesa riconosce nell’incontro con il povero un luogo fondamentale per fare esperienza  di Dio. Certo, il povero non è mai ideale, è concreto: non è semplice discernere in che senso, quando vado a fare servizio o entro in un ambiente, faccio esperienza di Cristo, o in che modo questo mi faccia crescere come cristiano. È però un dato che una delle “presenze reali” del Signore oggi sia la persona dei poveri. Per questo chiamo il servizio è un “luogo teologale”. E per questo è importante che la Chiesa continui a farlo. Non solo per fare un’opera di misericordia verso i poveri, ma perché noi stessi ne abbiamo bisogno. La Chiesa non può fare a meno di esercitare la carità, intesa come farsi vicino all’altro. Anche in una società  perfetta, dove tutti stessero bene e non ci fossero particolari bisogni.

Mi colpì molto il racconto di un ragazzo che alcuni lustri fa aveva trascorso un periodo di lavoro  in un paese dell’Est. Egli affermava che l’ateismo della gente emergeva nel fatto che nessuno facesse alcunché gratuitamente. La gratuità è un grande segno, di speranza, poiché afferma che ha senso fare il bene anche senza un rientro, sia esso economico, materiale, o anche morale. Perché uno può fare servizio in luoghi dove non ci sono gratificazioni o apprezzamento. Questo è un grande segno che la Chiesa dà al mondo e che realizza la sua essenza, la sua missione.

Vivere il servizio nell’APV, espressione della Caritas, aiuta anche a cogliere e approfondire la relazione tra esperienza di volontariato e cammino cristiano. Noi crediamo, infatti, che farsi vicino ai poveri non sia soltanto rispondere a un bisogno: questo lo fanno anche tanti non credenti. Noi crediamo che andare incontro ai poveri realizzi quello che il cristiano e la Chiesa devono fare e devono essere. Essere volontari, per noi, nasce e si alimenta nella preghiera, nella formazione cristiana, nella consapevolezza profonda del senso di quello che si sta compiendo in quel momento. Ogni gesto ha valore, perché replica e continua il lavare i piedi che Gesù ci ha consegnato, insieme con l’Eucaristia, nella notte del Giovedì Santo.

D’altra parte, il volontariato dà forma originale all’esperienza cristiana: un credente che va in carcere non vive la sua fede come prima, ma con una consapevolezza diversa. Capisce meglio cosa vuol dire avere misericordia, non giudicare… Capisce come è fatto l’uomo e di che cosa sia capace. Esiste un rapporto stretto tra l ‘esperienza credente e il servizio di volontariato. L’Associazione può aiutare, perché  servono dei luoghi in cui condividere le esperienza e crescere attraverso di esse. Infatti l’esperienza – anche l’esperienza credente – ha tre dimensioni: il vissuto, la comprensione e la comunicazione. L’esperienza, perché faccia crescere, va sostenuta in tutte le sue dimensioni: il vissuto, la comprensione e la comunicazione.  L’Associazione, pertanto, non è soltanto un’istituzione che facilita e garantisce il vissuto; dovrebbe garantirne la comprensione da un punto di vista credente e la successiva comunicazione: la testimonianza, la restituzione alla comunità tutta.

In ultimo, vorrei sottolineare il valore di segno della presenza dell’Associazione. Nel servizio c’è una fondamentale dimensione pedagogica: quello che si fa è certamente rivolto alle persone nel bisogno; come anche è una risorsa per la crescita personale, umana e cristiana. Il servizio si fa, però, anche per porre dei segni, per far vedere che è possibile che un carcerato sia aiutato a cambiare vita e a reinserirsi; che è possibile aiutare un malato a morire con serenità; che è possibile accogliere e accompagnare un anziano anche nei momenti più difficili. Questi segni sono importantissimi. Si diceva all’inizio che la società è cresciuta proprio perché sono stati posti dei segni. Abbiamo gli ospedali perché qualche confraternita o ordine religioso ha inventato gli ospizi per i viandanti e gli infermi. Pensiamo al Fatebenefratelli a Perugia, nato quasi 500 anni fa.

L’ospedale dello Stato è venuto quattro secoli dopo. Prima c’è stato qualcuno che ha cominciato a curare sistematicamente e  attentamente i malati, con competenza, professionalità. Da quel segno è maturata una sensibilità nella società, la quale ha fatto nascere istituzioni pubbliche nuove. Questa è la funzione pedagogica: dobbiamo porre  dei segni, consapevoli che fare certe cose vuol dire indicare una direzione. Il camminare insieme, lo stare in un luogo come Associazione rende evidente il carattere di segno. Si potrebbe andare da soli in ospedale o in carcere e fare comunque qualcosa di buono. Solo l’essere insieme, però, pone un segno eloquente, perché rende evidente l’azione, aprendo possibilità inedite. Se dall’ospedale arrivano richieste al volontariato, vuol dire che hanno capito che il volontariato è una presenza importante e non è indifferente che ci sia o meno, E l’hanno capito non perché alcune persone sparse sono andate a prestare servizio alla spicciolata, ma perché hanno agito gruppi di persone, stabilmente, in maniera organizzata e competente. Questo ha fatto capire che si trattava di una presenza importante. L’Associazione fa capire che l’ospedale, il carcere, Fontenuovo… senza i volontari non sarebbero lo stesso. Perché c’è un gruppo di persone che fa servizio stabilmente, in maniera  coordinata con l’istituzione, in maniera competente e continuativa. E diventa un segno che alla fine fa cambiare gli ambienti, li trasforma in meglio.

Questo è importante anche nella Chiesa. Il fatto che ci sia un’Associazione di volontariato dovrebbe essere di stimolo a tutta la comunità cristiana, sottolineando che non si può essere cristiani senza fare qualcosa per gli altri. Non basta andare a messa la domenica e fare catechesi una volta alla settimana: l’attenzione all’altro e a suoi problemi fa parte della vita del cristiano e della comunità. La Caritas non serve perché alcune signore aprano il Centro d’ascolto e distribuiscano le buste degli alimenti o il vestiario. Serve prima di tutto a sollecitare la comunità cristiana a prendersi cura degli altri. Non importa che questo avvenga nel condominio, al lavoro o in qualsiasi altra circostanza: non bisogna dimenticarsi che essere cristiani vuol dire anche fare qualcosa per gli altri, condividendo la passione per il Regno. Tra l’altro il Papa ci sollecita ad allargare questo orizzonte: nella Laudato si’ ci dice che per essere cristiani non ci si può limitare ad occuparsi dei problemi di casa nostra: ci sono problemi globali, come l’inequità, l’economia che uccide… Problemi globali che bussano alla porta di casa nostra: arrivano milioni di profughi  in Europa. Queste sensibilità qualcuno deve portarle nella comunità cristiana e nella società con una testimonianza, con un’esperienza. È importantissimo: se mancasse questo non verrebbero meno alcuni servizi; verrebbe meno una dimensione fondante della comunità cristiana.

Quindi essere segno è molto importante. Testimoniare può essere disagevole, ma è necessario. Bisogna raccontare, far sapere, far conoscere, porre dei segni che facciano scoprire l’esistenza dei bisogni e la possibilità di rispondervi.

In conclusione, ringrazio delle testimonianze molto significative e incoraggio tutti voi  a continuare questo percorso, specializzandovi nel settore che ritenete più consono alle vostre possibilità e alle vostre inclinazioni, ma senza dimenticarvi che la relazione è il vostro proprium e che l’appartenere a un’Associazione offre la possibilità di vivere da cristiani il servizio, di agire più efficacemente e di porre dei segni che aiutino la società e la Chiesa a crescere ancora.

Ringrazio l’APV, il cui ruolo è sempre prezioso, nella persona del presidente e dei formatori.

Vi auguro una buona prosecuzione nei moduli successivi del corso

Perugia, Ottobre 2015